Andrea Salcedo Llauradó* – Il destino di Ilka

 

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Ilka Oliva Corado è ormai una voce nota e richiesta della controindormazione. Guatemalteca, vive a Chicago senza documenti e mantenendosi con umili mestieri. Scrive per passione e per etica. Ha avuto l’opportunità, recentemente, di narrare la sua esperienza in un’aula del Columbia College. Una studentessa di giornalismo ha scritto una cronaca di quella esperienza.

 

Una volta superati gli orrori del passaggio a Nord, l’emigrante Ilka Oliva Corado si mantiene viva attraverso la narrazione e la poesia.

“Ai blocchi, pronti, via!”, gridava il coyote nel mezzo del deserto di sonora, in Arizona. Ilka Oliva Corado sapeva che dopo questo segnale dove correre il più velocemente possibile per salvarsi la vita.

Oliva, una donna guatemalteca di 36 anni, ha lasciato il suo paese a seguito di una brutta esperienza di lavoro e della delusione per il fatto di non poter realizzare il suo sogno di diventare arbitro internazionale di calcio.

Aveva tutti i requisiti per poterlo fare: età, condizione fisica e il numero giusto di partite arbitrate, però non era disposta a compiere l’ultimo “requisito”.

“Ti diamo la qualifica se vieni a letto con noi”, così ricorda la proposta del direttivo della federazione calcio guatemalteca, quella stessa che l’ha respinta e l’ha motivata a emigrare negli Stati Uniti e a cominciare una nuova vita.

“Ne ho avuto una frustrazione e una depressione talmente grandi che ho avuto bisogno di andarmene molto lontano dal mio paese”.

Due mesi dopo prendeva un aereo per Città del Messico, punto di partenza per la sua traversata di venti giorni.

Per quindici giorni è rimasta lì per imparare la cadenza messicana, i modi di dire, l’inno nazionale e i nomi dei presidenti municipali. Tutto per farsi passare per una di Vera Cruz e poter utilizzare i suoi documenti falsi durante il viaggio, una strategia che molto probabilmente le ha salvato la vita.

Qualche giorno dopo Oliva ha preso un altro aereo per Sonora, da lì una strada dritta circondata dal deserto, dove ha trovato un sacco di posti di blocco, superati grazie al suo nuovo accento e ai documenti falsi.

“Mi è servito parlare come una messicana perché molti altri sono stati fermati proprio per il loro accento”, ha raccontato Oliva.

Quella sera stessa il suo coyote, che Oliva descrive sui diciotto anni e di complessione smilza, ha dato istruzioni al suo gruppo di 15 persone sul modo migliore di attraversare la frontiera.

“Eravamo tutti vestiti di nero”, racconta Oliva che calzava scarpe da ginnastica alle quali aveva dovuto togliere la striscia fosforescente per evitare di essere acchiappata, guanti di lana per proteggersi dalle spine dei cactus e un passamontagna nero.

Portava anche delle provviste come acqua, siero, biscotti e una arancia per sopravvivere all’attraversamento giacché sapeva che era un percorso facile ma che non c’era la possibilità di tornare indietro ma solo di andare avanti.

Arrivati nel deserto di Sonora, il suo coyote li ha forniti di tutti i particolare e li istruiti sulla strategia per attraversare la frontiera. Bisognava restare uniti. O attraversavano tutti o morivano tutti.

La parte più difficile del percorso li aspettava nella famosa “linea divisoria” che separa Agua Prieta dagli Stati Uniti: una rete nella quale dovevano aprire un buco per attraversarla.

Purtroppo il viaggio non è andato come previsto e quella sera stessa non sono riusciti ad attraversare perché c’era la polizia di confine, la migra.

“Per tre volte ci ha scoperto la migra, commenta Oliva. “Era terribile perché sparavano; era inimmaginabile: pallottole, mitragliatrici, guppi di civili che collaboravano con la polizia e sparavano”.

Oliva non aveva idea che avrebbe trovato centinaia di altre persone in attesa di attraversare. Chilometri e chilometri di gente accovacciata in attesa del segnale per correre, ogni gruppo con il suo coyote”.

“Dicevani ai blocchi, pronti, via! Attraversate e si salvi chi può”. Racconta Oliva, “perché questo era il segnale. Attraversa la line divisoria e corri senza fermarti per lo meno per 3 chilometri. Questi tre chilometri sono fondamentali perché è dove c’è la migra”.

All’improvviso qualcuno ha acceso una luce e si sono visti circondati da 15 motociclette. Tutti correvano e gridavano per la vita, ricorda Oliva. Il suo gruppo ha preferito buttarsi in uno strapiombo per salvarsi, ma arrivati in fondo c’era qualcosa di peggio. “Laggiù c’erano dei cadaveri!” esclma Oliva. “Da quanto tempo stavano lì? Sembrava un film … Mi è venuta una rabbia vedendo come sparavano e uccidevano la gente”.

Ha raccantato molte delle atrocità di cui è stata testimone durante l’attraversamento. Ricorda di aver assistito allo stupro di due ragazze di circa venti anni, obbligate a spogliarsi e ad abbracciare due piante di fichi d’India mentre i poliziotti della migra le violentavano da dietro.

A un certo punto della traversata, Oliva racconta che un gruppo ha scorto una collina e hanno deciso di salirci. Il gruppo era cosciente del grande rischio di scalare, ma lo preferivano a quello di morire per mano della migra. Grazie a ciò il gruppo, pur avendo ritardato il viaggio di tre giorni, si è salvato la vita.

Racconta di non aver sentito nessun tipo di emozione o di gratitudine quando si è vista libera. “L’ho provato anni dopo”. Questa esperienza, che secondo Oliva l’ha cambiata, è finita quando sono arrivati in una casa in Arizona. Lì, alla fine, si sono abbracciati, si sono detti addio e non si sono mai più rivisti.

Stabilitasi a Chicago, Oliva è riuscita a mantenersi in questi ultimi 12 anni, lavorando come bambinaia, come domestica e come spazzaneve. Quando finisce di lavorare, dedica gran parte del suo tempo a scrivere sul suo blog “Crónicas de una Inquilina”, articoli sull’immnigrazione, la violenza di genere o commenti politici, ma scrive anche poesia. Grazie a ciò e ai molti libri che ha potuto pubblicare, Oliva è riuscita a far sentire la sua voce di protesta per le ingiustizie sociali.

Può darsi che Oliva non abbia mai creduto al sogno americano, come lei stessa dice, ma la sua perseveranza e quel fuoco interiore che la fanno andare avanti in un paese straniero la mantengono viva e con più voglia che mai di lottare per i diritti degli indocumentati.

“Sono grata all’emigrazione per avermi cambiato il destino”, conclude Oliva.

 

*- Studentessa di giornalismo nel Columbia College Chicago.

 

 

 

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