Alessandra Riccio – L’Uruguay attraverso “Marcha”. Intervista con E. Galeano

Eduardo Galeano

 

È un febbraio inclemente. A Perugia nevica· quando usciamo dal cinema dove

si proiettano Los inundadns, dell’argentino Fernando Birri. Una delle più celebri

piazze d’Italia si trasforma in uno scenario irreale dove in pochi minuti gli abbondanti

e silenziosi fiocchi ricoprono il cappellaccio nero di Birri, la sciarpa svolazzante

di Galeano e le braccia di Helena, allargate in un atteggiamento di statica

meraviglia difronte ad uno spettacolo cosi inconsueto e magico. Eduardo Galeano

è a Perugia per presentare il suo ultimo libro Memorias del fuego, il primo di

una trilogia che vuole riscattare la memoria storica e i miti fondatori di tutto

il continente americano. Quarantatré anni, uruguayano, esule politico dal 1976,

Galeano vive nei pressi di Barcellona. Le memorie cocenti e il rimpianto non

hanno soffocato in lui né entusiasmo né dinamismo; dopo una giornata assai

faticosa è ancora disposto a parlare con me di un pesante passato. Mentre la

neve attutisce i rumori e la notte aggiunge silenzio alle silenziose strade di Perugia,

ci rifugiamo ad un tavolino del bar dell’Albergo della Posta, sigarette e caffè,

a rievocare gli anni eroici di « Marcha » e di « Crisis >> . Fernando Birri, come un nume

tutelare, ci si siede a fianco per riascoltare questo « c’era una volta » che fa anche

parte della sua storia.

D. – Galeano, l’Uruguay è stato per decenni un paese ricco e tranquillo, la

Svizzera d’America, lo chiamavano. In quegli anni la cultura si sviluppava, forse

in forma elitaria ed elegante, con un occhio all’Europa e un altro all’America.

« Marcha » fu la rivista che meglio esprimeva il livello culturale del paese. Vuoi

rifarcene la storia?

R. – Volentieri, anche se la mia partecipazione alla rivista appartiene ad anni

posteriori alla sua fondazione e se io personalmente ho svolto il ruolo di capo~

redattore per pochissimi anni; tuttavia dal ’60 fino all’epoca della sua chiusura

sono stato un collaboratore fisso, e proprio lavorando con « Marcha », ho imparato

lezioni di giornalismo che mi sono poi servite per la rivista « Crisis » che

facemmo a Buenos Aires dal 197 3 al 197 6. « Marcha » deve i suoi trentacinque

anni di vita a Carlos Quijano, che ne fu il fondatore, e a Julio Castro, un maestro

di campagna che ne fu vice direttore. Quijano fondò la rivista nel 1939 comprando

un vecchio laboratorio ed un’anticuata rotativa su cui lavorava lui stesso.

Fu sempre l’unico proprietario e gestì la rivista con un piglio padronale che

tutti gli perdonavano, per quanto non mancassero i litigi, per la competenza e la

chiarezza di idee di Quijano. Nei primi anni « Marcha » era in qualche modo

legata al Partito nazionale e si poneva come stimolo per un movimento di opinione

antiimperialista. Io ci sono entrato giovanissimo, nel 1958, come disegnatore

e nel ’61 ero capo redattore. Negli anni ’40 e ’50 la .rivista rifletteva

l’atteggiamento tipico degli intellettuali uruguayani abituati a guardare dal balcone

gli avvenimenti, senza sporcarsi le mani ma esercitando una critica intelligente

e acuta. Era nazionalista e progressista e fu accusata di ecletticismo; in

realtà si occupava soprattutto di politica, nazionale ed estera, ma la sezione culturale

acquistò sempre maggiore importanza, basti pensare che il primo responsabile

di quella pagina fu Juan Carlos O netti e l’ultimo Angel Rama senza dimen·

ticare Emir Rodriguez Monegal. Julio Castro, però, con il suo grande senso della

realtà e con la sua sfiducia atavica che ha sempre manifestato verso quelli che

lui chiamava « i dottori », vigilava per salvaguardare il giornale da un eccessivo

intellettualismo.

Non mancavano le sezioni satiriche, sia nella grafica che nella rubrica La

mar en coche dove ·selezionavamo «perle» della burocrazia, del governo e

degli avvenimenti quotidiani. Darcy Ribeiro, il grande etnologo brasiliano, ripeteva

spesso che « Marcha » era una « università parallela», uno strumento docente,

un veicolo di controinformazione e di apertura mentale.

Questa impostazione la dovevamo a Quijano che ha insegnato a più di una

generazione di uruguayani che è possibile pensare con la propria testa; don

Carlos amava la polemica e sosteneva che le contraddizioni sono il motore della

storia, per questo non si sottraeva mai al dibattito e in questo era estremamente

onesto. Ci insegnò anche il rispetto per la parola: fu sempre convinto assertore

del fatto che il giornalismo fosse uno degli aspetti della letteratura, perciò

fu intransigente ed incorruttibile. Nonostante le molte, allettanti proposte che

ebbe, non si lasciò mai corrompere, tanto da meritare l’affettuoso soprannome

di «Don Quijano de la Mancha ». Ci accusavano anche di pubblicare troppi articoli

tradotti da altre testate ( « Times », « Le monde », ecc.); in realtà noi volevamo

dare l’informazione ad un pubblico al quale avevamo insegnato a pensare in

termini latinoamericani. La traduzione serviva a ricondurre il discorso internazionale

alla nostra realtà americana offrendola ai nostri 35.000 o 40.000 lettori

che appartenevano ad un ceto intellettuale molto ampio che comprendeva il professore

universitario ed il sindacalista. Io penso che proprio queste caratteristiche

del giornale ne fecero la rivista più letta di tutta l’America latina (a Buenos

Aires si leggeva tanto come a Montevideo), e stimolarono il lettore ad impegnarsi

con la propria realtà. « Marcha » si andò radicalizzando progressivamente e negli

anni Sessanta è già uno strumento di grosso dibattito politico e culturale che

dava ospitalità anche ai più grossi nomi della letteratura del nostro continente

che proprio in quegli anni cominciavano a diventare universalmente famosi. Neruda

e Sabato, Cortázar e Borges, Asturias e Arguedas, Roa Bastos e Márquez

furono nostri collaboratori ed animarono un intenso dibattito culturale che spesso

diventava politico. Anche con Cuba eravamo polemici: Quijano guardava con

sospetto· il passaggio di Castro al socialismo ed aveva scritto vari articoli in

questo senso.

Quando, nel ’64, mi recai a Cuba, chiesi a Ernesto Guevara di intervenire

nella polemica. Mi promise che ci avrebbe pensato e nel ’65, ci mandò il suo

memorabile El .socialismo y el hombre en Cuba, un articolo che suscitò una

grandissima impressione e che certamente contribuì a radicalizzare molte posizioni.

In quel pezzo il Che esponeva una sua idea fondamentale e cioè che lo

sviluppo non è il fine ultimo del socialismo e che il socialismo cerca un ordine

nuovo capace di generare un uomo nuovo; il Che sosteneva che la nuova società

apporta contributi fecondi per un mondo senza egoismi. Negli anni seguenti

« Marcha » approfondi il compito di denuncia e controinformazione, appoggiò le

esperienze del Frente Amplio e, forte della propria solida tradizione, sfidò molte

volte il regime.

Nel ’63 io avevo lasciato la redazione della rivista, per dirigere il quotidiano

«Epoca», ma la mia collaborazione con Quijano continuò ad essere strettissima.

Nel ‘7 3, dopo essere stato in prigione per una settimana perché la polizia, censurando

la posta, aveva trovato delle lettere del Fain venezuelano (dirette a

me come a tanti altri direttoti di giornali), decisi di accettare la proposta dell’argentino

Fico Vogelius di fondare a Buenos Aires una nuova rivista. Quijano

continuava il suo lavoro fra minacce e rappresaglie, finché, nel ’74 i militari

chiusero la rivista e bruciarono le collezioni di « Marcha » e insieme ad essa la

memoria di trentadue anni di storia del mio paese. Nel 1976 l’indomito Julio

Castro fu sequestrato, torturato e, probabilmente, assassinato. Quijano ha continuato

per qualche anno ad andare in tipografia, a guardare le mute rotative,

a rispondere a un telefono che squillava solo per proferire orribili minacce,

finché si è arreso ed è partito anche lui. Oggi vive in Messico, ha 83 anni e

continua a lavorare: sta pubblicando dei Quaderni di « Marcha » che dovrebbero

essere mensili, ma che escono quando è possibile.

D. -La chiusura di « Marcha » coincide con i tristi avvenimenti politici dell’Uruguay,

ma quando tu fondi « Crisis », in Argentina si apre una nuova epoca

di speranza, la cosiddetta «primavera di Cámpora».

R. – Effettivamente. Quando Federico Vogelius, Fico per gli amici, un industriale

pieno di idee, mi propose di trasferirmi sull’altra sponda del Mar de la

Plata, accettai con entusiasmo. Il clima politico era euforico e Vogelius aveva

venduto un quadro di Chagall, uno dei più belli che io abbia mai visto, per dare

inizio alla nostra impresa. « Crisis » era una rivista culturale che si proponeva

di aggiornare la cultura argentina sia attraverso un’informazione tempestiva che

attraverso saggi affidati a personalità altamente professionali. Ma noi ci occupavamo

anche, e con molto entusiasmo, di cultura popolare.

Eravamo un gruppo di giornalisti scrittori molto affiatati: c’era Juan Gelman,

Haroldo Conti, Rodolfo Walsh, Paco Urondo, Osvaldo Soriano, Chiquita Constelo

che poi fu direttrice della casa editrice di « Crisis ». Tutti questi amici ora sono

morti o scomparsi o in esilio. Ci accomunava un concetto di cultura molto ampio

ma sempre assai rigoroso: noi potevamo pubblicare di tutto, ma ogni cosa passava

per un vaglio molto stretto. Ci inventavamo le cose e cercavamo la cultura

anche nelle strade, nei graffiti murali o nella voce di un payador. Anzi, le cose

che ci venivano incontro dalla strada finirono per occupare gran parte delle nostre

pagine. È per questo che la Giunta militare proibì la divulgazione «non specializzata

su qualsiasi tema nonché i reportage di strada», pochi mesi dopo aver

preso il potere. Era un colpo diretto a « Crisis », era l’apoteosi della proprietà

privata, era il monopolio del potere sulla parola, era la condanna al silenzio per

l’uomo della strada. Capimmo allora che non c’era più niente da fare e decidemmo

di chiudere « Crisis » prima che ce la venissero a chiudere. Già da tempo

i militari ne avevano proibito la vendita provincia per provincia e la gente cominciava

ad avere paura. Alcuni furono arrestati perché detenevano stampa sovversiva,

fra cui i numeri del nostro giornale, Haroldo Conti fu desaparecido,

e tutti si aspettavano il peggio. Io montai su un aereo e me ne andati per sempre,

Vogelius fu arrestato nel 1979 e torturato brutalmente: volevano che confessasse

di avere ricevuto soldi dai Montoneros per la rivista. Quando lo rilasciarono,

andai a prenderlo all’aeroporto di Londra: non aveva più denti. Paco Urondo

è morto in uno scontro con la polizia. Juan Gelman e Chiquita Constelo si sono

rifugiati a Roma. Rodolfo è scomparso … Ma « Crisis » non è stata un’esperienza

inutile. Io penso che ha rispecchiato un momento storico di incredibile vitalità,

che ha approfittato di uno spazio culturale creato da circostanze eccezionali ma

non irripetibili. I segnali lanciati da « Crisis » trovarono un pubblico attento e

sensibile. In altri luoghi e in altri momenti troveremo lo spazio per ricominciare

una nuova avventura all’altezza di nuovi tempi.

 

(Pubblicato in “Latinoamerica”, n. 9, 1983)

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